mercoledì 24 giugno 2009

la stanza di silvia

La mia formazione è fatta di studi universitari socio-politici e di cinema, poi di 15 anni di pratica sul cinema documentario
Sono iscritta al collocamento dello spettacolo come regista, di fatto ho lavorato sempre nell’ambito del cinema documentario, come regista, come ricercatrice, ma anche parallelamente in ambito educativo sempre su materie audiovisive (docenze in corsi di formazione professionale, in progetti per le scuole superiori e in corsi di aggiornamento per insegnanti, docenze a contratto e seminari per le università di Bologna, Pisa, Ferrara)
Il mio lavoro è stato prevalentemente nomade, fino a tre anni fa, ora lavoro soprattutto a casa.
Quando sono uscita dalla casa dei miei genitori per andare a studiare all’università a Bologna ho compreso da subito l’esigenza fondamentale di un luogo tutto per me, anche se convivevo con altre tre mie amiche. Una scrivania in disordine e un muro tappezzato da fogli disegni e fotografie, appesi su una lavagna magnetica. Il mio luogo.
Quando tornavo a casa a Ravenna la situazione era diversa, perché ho sempre condiviso tutto con mia sorella, dalla stanza alla scrivania, dagli abiti ai libri. Pertanto quando 10 anni fa sono andata a convivere con il mio attuale compagno, ho preteso un angolo della nostra minuscola casa per il mio pc e i miei libri. E non è stato facile perché per chi, come lui, non aveva mai lavorato a casa, ma sempre fuori in uffici, era un’esigenza un po’ “egoista” quella di sottrarre spazio a una casa già piccola: una scrivania in vetro dove a fatica ci stava la tastiera mouse stampante e il video, ma poco spazio per fogli e libri. Così regolarmente quando era a casa da sola a progettare scrivere e pensare mi “allargavo”, sconfinando sul tavolo della cucina o sul divano, distanti di pochi metri l’uno dall’altro. Poi quando sapevo che non sarei stata più sola in casa, risistemavo alla meglio: i libri i fogli gli schizzi le cassette i dvd i nastri della telecamera, ammucchiando disordinatamente sulla mia scrivania. Il paragone con la scrivania antica del mio compagno, che era nella seconda stanza di casa – la camera da letto – era sconfortante: lui ordinato e scarno nei pochi oggetti, io caotica e incontenibile. Nei periodi di intenso lavoro: come quando dovevo scrivere e progettare film, il caos e gli oggetti crescevano ed era sempre più difficile sistemarli in modo che non ostruissero lo spazio comune, e quando dovevo fare riunioni di lavoro con colleghi e amici, la mia piccola casa colorata era ancora più stretta, e l’unica stanza che svolgeva tante funzioni (studio salotto cucina) si trasformava in un affollato ufficio di progettazione. Ho persino fatto l’analisi delle riprese di un film che stavo realizzando con ben 8 persone (tra produttore, direttore e assistente della fotografia, fonico, segretaria di edizione, organizzatore e altri) sistemati tra il divano le sedie e le poltrone e i pouf. Poi quattro anni fa ho cambiato casa e ho lottato con i denti per ottenere una “stanza tutta per me”, uno studio in fondo alla casa, ricavato da una lavanderia costruita negli anni settanta. Era un luogo di lavoro per donne: una lavanderia e due balconi per stendere i panni. Con la complicità di mia sorella architetto, che ha progettato la ristrutturazione, è nata la mia stanza. L’orgoglio mi ha spinto a chiamarla anche la STANZA DI SILVIA con tanto di targa. È una stanza di circa 9 mq illuminata da una enorme vetrata sul lato nord ovest con un piccolo balcone sul giardino interno e con una portafinestra sul ballatoio che costeggia la casa. Mio padre mi ha regalato un lungo tavolo in vetro e tubi cromati, un tavolo da design smantellato da un negozio di abbigliamento, sopra regna il disordine e la confusione che mi accompagnano sempre: monitor grande, pc portatile con stampante, cavi usb, modem adsl, mouse, calendario da tavolo, penne colorate, fogli scarabocchiati, dvd impilati che aspettano di essere visti, quadernetti di appunti, occhiali e fotografie. Alla mie spalle ho fatto costruire 8 lunghe mensole in legno che coprono l’intera parete e li c’è il mio regno, la mia storia lavorativa e personale (perché i libri sono in un’altra libreria in salotto): vhs e dvd di film, super 8 con cineprese e proiettore, libri e riviste di cinema e comunicazione, cartelline colorate piene di progetti lettere appunti di lavoro, o di articoli di giornale, i master dei film o le copie, i super 8 della mia infanzia. Nella mensola centrale c’è il limbo: pennarelli, tempere, colori a olio, pennelli, disketti, dvd, cd rom, pellicole fotografiche, i-pod e telecamera, raccoglitori con i progetti realizzati o in corso o che vorrei fare (da BULOW, ANDIAMO A GENOVA! LA TRAMA E L’ORDITO, CINEGIORNALE LIBERO ZA, SEQUENZE SUL G8, GARDINI:PROGETTO PER UN FILM SCOMODO, LE SORELLE DI SHAKESPEARE) una cartellina con la rassegna stampa, una cartellina che raccoglie appunti e spunti per idee di film futuri, una sui contratti e compensi dal 1999, ecc. Poi al centro della mensola una pila informe con fogli stampati e scarabocchiati, che nella mia logica dovrebbe contenere il materiale di lavoro attuale: le scalette delle lezioni all’università di Ferrara e l’indice e i primi capitoli del libro che sto scrivendo sul cinema documentario. Ma dato che la scrivania è lunga, la considero una sorta di appendice del mio pensiero e ci appoggio tutto quanto possa ricordarmi le cose da fare da lì a poco: devo cucire un libro tattile da regalare a mio figlio e allora ecco la scatola di metallo con ago e fili e bottoni, il sacchetto con le stoffe colorate e i fogli con i disegni degli animali. Ma anche i film dvd che devo vedere, scovati da un archivio di cinema famigliare con cui lavoro. Ma non mi accontento: a volte ci sono anche le mollette dei panni da stendere. Perché questa stanza oltre ad essere uno studio per il mio lavoro immateriale e intellettuale a volte diventa anche la stanza di una tipica donna di casa: ho la lavatrice nella stanzetta a fianco e lo stendipanni nel balcone adiacente, e la mia stanza diventa il luogo di passaggio per raccogliere estendere gli abiti lavati. Nella parete azzurra di fronte alla scrivania ho appeso stampe fotografiche: il poster di una proiezione pubblica di un film che ho fatto e di cui sono molto legata, un mio disegno da piccola che rappresenta 4 strane figure di donne, a metà strada tra le fate e le streghe, una foto di un famoso fotografo cubano – Raul Corrales -che ritrae una malinconica guerrigliera nicaraguese, due foto di Tina Modotti, una foto-ritratto di un’amica fotografa che riprende quattro amiche (compresa la sottoscritta) il giorno del matrimonio di una di loro e una grande riproduzione di una foto di Salgado intitolata In cammino, che ritengo sia una bella metafora della mia situazione di donna, in continuo divenire in cammino perenne, non solo fisicamente, dato che ho fatto per anni una vita nomade: lavoravo e vivevo a Roma una settimana al mese di media.
Anche la mia professione cambia ogni giorno e non sono ancora riuscita a fare progetti lavorativi a lunga scadenza, ora più che mai, con la nascita di un figlio è cambiato drasticamente tutto: sono molto più stanziale e il mio lavoro si è stabilizzato in casa. ho scelto per ora attività che posso fare dal mio studio collegata al mio pc: scrivo saggi e ora anche un libro, insegno in una sede universitaria che ha scelto la metodologia dell’e-learning, quindi insegno tramite pc e web. Non ho per ora una produttività alta, come era prima della nascita di Jacopo, e mi ritaglio la giornata di lavoro quando sono sola, ovvero quando il bambino è all’asilo, ovvero dalle otto alle sedici. Quando sono in difficoltà per le scadenze ravvicinate o per la mole di lavoro che non controllo chiedo aiuto al padre e alle nonne. E’ cambiato anche il mio spazio, perché ora, in quella che ritenevo solo la MIA STANZA, si è trasformata in un generico STUDIO, da quando Paolo, mio marito, ha cambiato lavoro: da lavoratore a contratto a tempo indeterminato, ha cambiato sede e forma contrattuale, ma non ruolo: lavora a Bergamo con un contratto a progetto e non avendo più un orario fisso e un cartellino da timbrare, trascorre il suo tempo di lavoro tra lo studio (ora attrezzato con una scrivania in più e un portatile) e l’estero (Europa e nord africa). Per me è ancora il mio spazio e considero la sua intrusione come momentanea, anche perché la porzione di spazio che occupa lui è minoritaria rispetto alla mia e, come gli ho sottolineato, è una convivenza rispettosa ma non democratica!
Confesso che mi manca un po’ la mia vita da nomade, i viaggi in treno che mi aiutavano anche a scrivere leggere e pensare, da sola anche se attorniata da persone, il lavoro totalmente coinvolgente del fare film, e la concentrazione che riuscivo a mantenere senza sentire i morsi della fame o il telefono che squillava. Ora fatico a ritrovare questi spazi e quando Jacopo entra nel mio studio e mette in discussione il mio ordine disordinato, frugando nei cassetti, mi innervosisco perché non riesco a seguire i suoi movimenti e il mio pensiero che tento di seguire trascrivendolo con parole e tastiera.
Non mi pesa il mio sentirmi diversa dalle altre mamme che hanno lavori ufficiali e riconoscibili. Quando parlo con le altre donne so che il mio è uno stato professionale non normale: non ho un ufficio con altri, non ho le ferie, non ho un orario fisso, non ho maternità malattia ecc. Ma è una scelta, che costa ma ha anche forti vantaggi. I tempi e gli orari di lavoro sono diversi da quelli delle altre e mi piace molto il tempo che dedico ai miei tempi di vita in città, quando so che altri sono chiusi in uffici o luoghi di lavoro con orari fissi, mi riapproprio degli spazi della città come se vivessi in una perenne stato da studentessa universitaria.
Sono convinta però che il mio lavoro sia poco riconosciuto da chi mi circonda, tanto che se il bambino si ammala, è ovvio e naturale che sia io ,ad occuparmene, accantonando il mio lavoro di scrittura e di ricerca. Con le conseguenze di dover lavorare la notte o nelle ore di sonno del bambino con ansia per i tempi strettissimi. Così spesso mi dimentico di essere ancora una donna che ha anche delle esigenze sue, anche se non vitali, ma almeno di sopravvivenza mentale.

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