mercoledì 24 giugno 2009

la casa barca

Sono laureata in economia, ho un master e un dottorato. Mi occupo di ambiente, sostenibilità, qualità. Come libera professionista svolgo attività di consulenza aziendale, come ricercatrice collaboro con vari istituti di ricerca, come docente ho un corso in affidamento all'università.
Nel corso di questi anni, il lavoro si divideva in due città e quindi avevo “la casa (home)” dove tenevo tutti i miei libri ed era lo spazio che sentivo mio e poi “una stanza” in uno studio per il quale svolgevo consulenza aziendale a Varese e quindi la mia scrivania in università a Brescia, e pure una condivisione in casa (house) a Brescia. Ora da qualche mese è tutto molto più semplificato. Vivo e lavoro a Brescia.
Quindi vorrei parlare di questa ultima fase che mi rappresenta di più oggi. Direi che lavoro prevalentemente nell'istituto di ricerca dove ho una stanza con computer e telefono e connessione internet, a volte condivido la stanza con altri e spesso la stanza è usata per riunioni e incontri con gli altri ricercatori.

La mia casina di Brescia è piccola, ma l’ho cercata così. A Varese gli ambienti erano bellissimi, grandi, ma io li sentivo enormi per me, per una persona sola e per il fatto di avere l’ufficio a 5 minuti da casa avevo preferito mantenere staccato l’ambito lavorativo da quello casalingo. Quella era una casa casa, quasi uno spazio in cui mi pensavo in villeggiatura. Questa invece la chiamo la casa-barca. Tutto in poco spazio, su due piani collegati da una scala, ma su misura per me e a portata di mano.
In questi mesi di costruzione della casa ho fatto diversi esperimenti. Prima ho lavorato su un tavolo che serviva per tutte le attività. Se il lavoro era organizzato bene e stavo bene io, ero in grado di chiudere tutto, spostare carte e computer, usare il tavolo per la cena e poi riprendevo. Altrimenti, se ero stanca, lasciavo tutto in disordine, combinavo poco oppure cenavo o facevo colazione in mezzo a fogli e computer aperti. Nessuna connessione adsl perché tanto ce l’avevo in Università. Mi sono resa conto che questa soluzione non tornava. Trascorro poco tempo a casa e ho bisogno di uno spazio dedicato e soprattutto necessito di mie connessioni rispetto al mondo esterno. Molto ha influito anche l’arrivo di pagamenti dell’università che fino a Natale mi fatto rimanere in stand-by per tutti gli acquisti e gli investimenti minimi di una casa nuova. Insomma ora la soluzione è questa: al piano superiore ho tavolo, telefono e computer. Librerie intorno a me e il futon verso la finestra: qui lavoro. Al piano inferiore tavolo e cucina. Ho fatto anche una connessione wifi così mi sento connessa ovunque.
La mattina mi sveglio con il suono e il profumo della moka-programmabile-la-sera-prima che è meglio della classica sveglia: il profumo di caffè si spande per casa, come se lo avesse preparato qualcuno. Bevo una tazza allungata con acqua calda: è uno dei ricordi dell’Olanda dove ho vissuto due anni e che mi porto con me. Ci impiego un’ora per uscire. Per il lavoro del CRASL esco alle 8.30 -9.00 al massimo da casa, colazione seria al baretto sotto casa, dove leggo qualche quotidiano e scambio due parole con gli amici del bar. E’ un’entrata nella giornata che mi piace, ormai un piccolo rito. Arrivo in università in bici dopo una decina di minuti. Trascorro la giornata tra incontri, riunioni, telefonate, revisioni di testi. Poco rimane in università per elaborare qualcosa che non sia dipendente da un incontro. Quando capita, mi metto le cuffie e ascolto musica ad alto volume che mi crea un distacco rispetto a quanto avviene intorno e mi aiuta a concentrarmi. Lo faccio anche a casa, anche se lo spazio in cui vivo è silenzioso. Ecco, tanto non riesco a concentrarmi in uno spazio condiviso, con telefonate e presenze, tanto non riesco in uno spazio totalmente silenzioso e solitario.
In università ho fatto un calcolo di quanto tempo dedico alla risposta delle mail di lavoro: circa due-tre ore. Poi ci sono le telefonate: mezz’ora al massimo. Il resto sono riunioni di progettazione. Capita spesso che faccia più cose contemporaneamente. Esco alle 18, e quando le attività sono molte, arrivo fino alla chiusura, alle 19.30. E’ accaduto spesso negli ultimi mesi.
Poi vado a bere un aperitivo sotto casa con qualcuno degli amici e torno a casa o ceno con qualcuno che come è troppo stanco o ha il frigorifero vuoto. Oppure vado in palestra. Ora riprenderò anche a correre, ma al mattino prima di tutto. Questo dal lunedì al venerdì. Il venerdì, se ho lavorato bene, passo il pomeriggio a riorganizzarmi mentalmente la settimana successiva. Avverto la segretaria via email delle mie presenze e se abbiamo delle urgenze.
Mi sono resa conto che quello che mi faceva stare in università così a lungo spesso era la connessione adsl: a casa l’idea di essere isolata in modo costretto era per me una perdita di possibilità e mi faceva salire ansia e senso di colpa. Ora la connessione wifi di casa mi ha tolto questa sensazione e mi permette di dividere meglio quello che faccio in ambito lavorativo-relazionale in università, da quello che faccio a casa come mia attività privata o elaborazione che sia.
Da pochissimo tempo ho ripreso una relazione affettiva degna di questo nome. E’ stato come riprendere una progettazione di spazi e tempi all’interno di una progettazione più ampia, vitale direi. E’ tutto nuovo. Dopo qualche giorno di esperimento abbiamo deciso che insieme a casa, se dobbiamo lavorare entrambi, ci stiamo poco. Ci intralciamo, ma penso sia solo questione di abitudine a mantenere un proprio ambito personale, quasi solitario di elaborazione vivendo insieme lo stesso spazio. E’ questione di costruzione. Bè quando lui è presente, la colazione la faccio a casa e se riesco torno per pranzo. Altrimenti condivido con lui il baretto.

A casa scrivo meglio, ma anche mi disperdo in piccoli lavori di cura, di riordino, di riposo, di letture altre. In università, il mio lavoro è totalmente pubblico: organizzazione e collaborazione. Il fine? La gestione e la creazione di progetti di ricerca applicata, di risposta ai committenti. Un continuo lavoro interno ed esterno al Centro di ricerche. La mia identità passa da lì, da quell’elemento pubblico che è il lavoro in gruppo, la gestione e la creazione della coesione. Tutti elementi che si giocano e si creano con la presenza fisica e la cura diretta. L’approvvigionarmi di idee, di energia arriva un po’ dai risultati, dalle stesse relazioni umane e professionali che si instaurano con gli altri ricercatori e chi lavora in università (amministrazione, segreteria etc), ma molto da quanto io svolgo e creo nello spazio di casa. L’uno senza l’altro non funziona. Ci ho provato. Mi sento sbilanciata o verso l’esterno o verso l’interno e il rischio è che a casa vada verso l’inerzia di pensieri e di azione oppure in università verso la dispersione di idee e l’accumulo di informazioni eccessive e disparate.

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