Trovo che la femme maison abbia al contrario del disegno testa e no corpo. testa per pensare mentre lucida e smerda, ma no corpo per fare altro...
Trovo che il corpo sia suddiviso in tante stanze, quante ne può possedere una casa, e in ogni stanza respirino e si esprimano gli organi, la testa è fuori, non libera ma fuori dalla casa.
Trovo che questo lavoro della bourgeois, sia semplicistico tanto quanto il quadro della figa di courbet,esemplicativo anche se efficace.
Penso allora ai lavori di Shirin neshat in pulse o nel suo lavoro sul respiro dentro e fuori casa. Oppure ghada amer in cinq femmes au travail efficace e potente nel mezzo della comunicazione.Lei lavora sui modelli educativi femminili...
Ecco mi trovo a comunicare con ciò che mi hanno insegnato e con ciò che possiedo, il ricamo ed i miei capelli.
Questo per adesso...il mio ruolo di madre mi chiama
giovedì 25 giugno 2009
mercoledì 24 giugno 2009
dentro/fuori, l'alternativa e l'inganno
Lavoro da ormai 12 anni nel campo della formazione e della ricerca sociale.
12 anni di lavoro in cui si è stabilizzata e consolidata la collaborazione soprattutto con due committenti:
Amministrazione provinciale di Lucca e Proteo, un’agenzia formativa legata alla CGIL.
Committenti diretti, scatole-contenitori che finanziano attività e progetti e committenti-clienti, ASL, Comuni, Conferenze dei sindaci, associazioni, cooperative …
Diversi soggetti per tanti e molteplici luoghi di lavoro; spazi in cui si svolgono riunioni finalizzate all’avvio dei progetti e prima ancora ad un confronto su un’idea progettuale, magari corredata da una breve scheda, scritta a casa.
Lo studio è l’unico luogo in cui è possibile rintracciare appunti, progetti precedenti, articoli, materiali da lavoro che continuano ad accatastarsi nella piccola libreria regalata 5 anni fa dai genitori di Verano.
Oggi ho uno studio mio, una stanza di 20 mq che si affaccia su un balcone stretto e lungo che guarda la strada che attraversa il paese.
Scrivania e libreria sono allineate sulla parete destra in attesa del divano letto e della libreria bianca che prenderà tutta la parete spingendo la scrivania al centro.
Lo studio è una conquista recente perché per 10 anni la mia stanza da lavoro è stato l’ingresso della vecchia casa; la porta a vetri lo rendeva luminoso e gli spazi sembravano essere stati costruiti ad hoc per l’incastro dei mobili comprati separatamente e in momenti diversi.
La vetrina in noce nazionale , con i bicchieri di cristallo regalati per il matrimonio, era di fronte alla scrivania costruita artigianalmente da Verano, a destra la libreria.
Sopra la scrivania il poster di De Andrè che oggi è appoggiato per terra vicino allo stereo in attesa di una collocazione.
Lo studio-ingresso diventava anche la stanza da stiro.
I momenti in cui lo studio-ingresso diventava uno spazio solo mio erano la mattina, quando Verano e Paolo uscivano di casa, per andare a lavoro e a scuola, o la sera tardi quando entrambi erano a letto.
Quando dovevo scrivere, lavorare al p.c, lo facevo la mattina perché il tempo a disposizione era più lungo, anche se spesso i programmi fatti la sera saltavano perché il telefono prendeva sempre un tempo piuttosto consistente: telefonate della direttrice di Proteo, della tutor del circolo di studio, della docente del corso di…;
A ciascuna telefonata corrispondeva una richiesta diversa, un progetto diverso.
Nei giorni in cui mi ritrovavo alle 14.00 e mi rendevo conto che il tempo era scorso sul filo del telefono, chiudevo la mattinata facendo l’elenco dei progetti che mentalmente avevo ripercorso attraverso le telefonate nel tentativo di dare concretezza e senso ad un’altra giornata andata.
Ci sono stati dei momenti in cui ho odiato il telefono perché mi sono sentita un po’ “perseguitata”, sempre raggiungibile da persone con richieste sempre diverse e sempre urgenti..
..e poi le telefonate che facevo io; in casa a Castiglione non c’era segnale per cui tutte le telefonate le facevo dal fisso e ogni due mesi insieme alla bolletta tornava puntuale il pensiero di chiedere una scrivania, un telefono e un p.c per lavorare.
Chiedere a chi?
La sede di Proteo erano due stanze di passaggio al primo piano del palazzo della CGIL in Via Fillungo.
Due stanze in cui prendeva posto chi riusciva ad arrivare prima.
Accompagnavo e continuo ancora oggi a portare Paolo a scuola per cui la mattina non sono mai riuscita ad arrivare a Proteo prima delle 10.00, troppo tardi per trovare una postazione libera!
Quando lavoravo in Provincia avevo una scrivania, un telefono e un p.c.
Prima, non ancora sposata e senza figlio, con un contratto annuale su una miriade di progetti, mi alzavo alle 6.30 , alle 7.15 prendevo il treno per essere in ufficio alle 8.10, massimo alle 9.00.
L’ufficio era anche il luogo dove si facevano le riunioni convocando tramite lettera scritta e protocollata le persone coinvolte nei vari progetti.
Allora mi spostavo per qualche docenza in Versilia o nelle varie comunità del CEIS, a Nocchi, a Vecoli o Bicchio.
Poi la collaborazione con la Provincia è proseguita ma come libera professionista e su progetti pensati e proposti da me e altre colleghe.
I luoghi delle riunioni con le mie colleghe spesso sono state le loro case, altre volte abbiamo utilizzato, come clandestine, uffici di atre, di Proteo o del Centro P.O a seconda del nostro umore e della disponibilità.
Il passaggio da cococo a partita IVA è stato marcato dall’evaporazione dei luoghi di lavoro e dall’aumento dei contatti tenuti telefonicamente…
Il telefono, ancora il telefono…a casa o in macchina durante gli spostamenti.
.
Telefonate sui progetti di ore; anche con le amiche -colleghe la priorità era data al lavoro e solo sul finire del discorso ci si concedevano due chiacchiere per raccontarci come stava andando.
Oggi per le riunioni mi sposto io, vado negli uffici, più o meno accoglienti delle persone con cui devo parlare.
La mia stanza da lavoro è lo studio di casa mia, dove, oltre al p.c. portatile ho un fax che fa anche le fotocopie.
Al mio vecchio cellulare se ne sono aggiunti altri due, un vodafone con un contratto fatto da Verano che mette in rete tutta la famiglia a prezzi vantaggiosissimi, un altro, di servizio, che mi è stato dato venerdì scorso dalla direttrice di Proteo.
Privilegio raro riservatomi in quanto coordinatrice di due servizi che coinvolgono complessivamente 10 operatori.
A differenza dei primi anni di lavoro ( il cellulare doveva rimanere sempre acceso perché poteva arrivare qualche proposta interessante, non si sa mai) oggi, l’esperienza e una maggiore sicurezza professionale mi consentono di non essere sempre in allerta: quando devo scrivere, ( un report, una relazione , un progetto) spengo il cellulare e a volte stacco anche il telefono di casa.
Mi capita con le persone con cui collaboro di organizzare a casa un pranzo o un tè di lavoro, così come capita di fare la riunione sul bando provinciale a casa di Silvia perché più tranquilla rispetto a Proteo dove, solo da una settimana , è stata allestita una stanza per le riunioni.
Non è possibile stabilire settimanalmente i giorni dedicati al lavoro a casa e al lavoro fuori, a parte la psicoterapia gli altri impegni si incastrano sull’agenda in modo flessibile, si spostano appuntamenti, ci si organizza con il marito o con la mamma per fare posto ad una riunione convocata all’ultimo momento.
In questa continua altalena, talvolta i due poli, dentro e fuori, tornano a configurare alternative di cui ormai sappiamo l’inganno:
- il fascino e l’ebbrezza di uscire di casa la mattina, cambiate, incontrare gente si scontra con la stanchezza di una corsa che ci vede arrivare sempre un po’ in ritardo;
- la promessa di un tempo più lento del lavoro a casa richiama dimensioni maggiormente rassicuranti, meno estranianti ma continuamente minacciate dal provare a mettere insieme un altro tipo di corsa, il rapporto di ricerca con la preparazione del pranzo e la lavatrice, o al suo opposto una lentezza che vira minacciosa verso la depressione.
Il lavoro fuori casa continua ad occupare un tempo consistente scandito da riunioni con i colleghi, i clienti, i committenti.
Altri luoghi, che pure hanno a che fare con il lavoro, rappresentano spazi di riflessione sul lavoro: il network a Milano, il cantiere a Reggio Emilia, il gruppo su giovani e volontariato.
Le riunioni con i colleghi e con i committenti costituiscono i momenti di confronto sul lavoro rendendo meno privato e più pubblico un percorso professionale in cui gli intrecci tra casa e fuori non sono solo rappresentativi di spazi in cui si svolge il lavoro ma sono anche espressione di una dinamica tra desideri/passioni individuali e possibilità di tradurli in azioni visibili che vadano oltre le mura domestiche, vs il mondo.
Sono momenti in cui il lavoro solitario acquista una visibilità pubblica; tracce di un percorso professionale che via via mi ha visto assumere ruoli diversi con competenze diverse.
Il desiderio che ancora mi spinge a fare un’ora di macchina per andare a Lucca per una riunione, un incontro, forse sta proprio lì, nella possibilità di sviluppare progetti insieme ad altri e mettere in gioco competenze maturate nell’intreccio tra dentro e fuori che è soprattutto dialettica tra desideri e possibilità di realizzarli.
12 anni di lavoro in cui si è stabilizzata e consolidata la collaborazione soprattutto con due committenti:
Amministrazione provinciale di Lucca e Proteo, un’agenzia formativa legata alla CGIL.
Committenti diretti, scatole-contenitori che finanziano attività e progetti e committenti-clienti, ASL, Comuni, Conferenze dei sindaci, associazioni, cooperative …
Diversi soggetti per tanti e molteplici luoghi di lavoro; spazi in cui si svolgono riunioni finalizzate all’avvio dei progetti e prima ancora ad un confronto su un’idea progettuale, magari corredata da una breve scheda, scritta a casa.
Lo studio è l’unico luogo in cui è possibile rintracciare appunti, progetti precedenti, articoli, materiali da lavoro che continuano ad accatastarsi nella piccola libreria regalata 5 anni fa dai genitori di Verano.
Oggi ho uno studio mio, una stanza di 20 mq che si affaccia su un balcone stretto e lungo che guarda la strada che attraversa il paese.
Scrivania e libreria sono allineate sulla parete destra in attesa del divano letto e della libreria bianca che prenderà tutta la parete spingendo la scrivania al centro.
Lo studio è una conquista recente perché per 10 anni la mia stanza da lavoro è stato l’ingresso della vecchia casa; la porta a vetri lo rendeva luminoso e gli spazi sembravano essere stati costruiti ad hoc per l’incastro dei mobili comprati separatamente e in momenti diversi.
La vetrina in noce nazionale , con i bicchieri di cristallo regalati per il matrimonio, era di fronte alla scrivania costruita artigianalmente da Verano, a destra la libreria.
Sopra la scrivania il poster di De Andrè che oggi è appoggiato per terra vicino allo stereo in attesa di una collocazione.
Lo studio-ingresso diventava anche la stanza da stiro.
I momenti in cui lo studio-ingresso diventava uno spazio solo mio erano la mattina, quando Verano e Paolo uscivano di casa, per andare a lavoro e a scuola, o la sera tardi quando entrambi erano a letto.
Quando dovevo scrivere, lavorare al p.c, lo facevo la mattina perché il tempo a disposizione era più lungo, anche se spesso i programmi fatti la sera saltavano perché il telefono prendeva sempre un tempo piuttosto consistente: telefonate della direttrice di Proteo, della tutor del circolo di studio, della docente del corso di…;
A ciascuna telefonata corrispondeva una richiesta diversa, un progetto diverso.
Nei giorni in cui mi ritrovavo alle 14.00 e mi rendevo conto che il tempo era scorso sul filo del telefono, chiudevo la mattinata facendo l’elenco dei progetti che mentalmente avevo ripercorso attraverso le telefonate nel tentativo di dare concretezza e senso ad un’altra giornata andata.
Ci sono stati dei momenti in cui ho odiato il telefono perché mi sono sentita un po’ “perseguitata”, sempre raggiungibile da persone con richieste sempre diverse e sempre urgenti..
..e poi le telefonate che facevo io; in casa a Castiglione non c’era segnale per cui tutte le telefonate le facevo dal fisso e ogni due mesi insieme alla bolletta tornava puntuale il pensiero di chiedere una scrivania, un telefono e un p.c per lavorare.
Chiedere a chi?
La sede di Proteo erano due stanze di passaggio al primo piano del palazzo della CGIL in Via Fillungo.
Due stanze in cui prendeva posto chi riusciva ad arrivare prima.
Accompagnavo e continuo ancora oggi a portare Paolo a scuola per cui la mattina non sono mai riuscita ad arrivare a Proteo prima delle 10.00, troppo tardi per trovare una postazione libera!
Quando lavoravo in Provincia avevo una scrivania, un telefono e un p.c.
Prima, non ancora sposata e senza figlio, con un contratto annuale su una miriade di progetti, mi alzavo alle 6.30 , alle 7.15 prendevo il treno per essere in ufficio alle 8.10, massimo alle 9.00.
L’ufficio era anche il luogo dove si facevano le riunioni convocando tramite lettera scritta e protocollata le persone coinvolte nei vari progetti.
Allora mi spostavo per qualche docenza in Versilia o nelle varie comunità del CEIS, a Nocchi, a Vecoli o Bicchio.
Poi la collaborazione con la Provincia è proseguita ma come libera professionista e su progetti pensati e proposti da me e altre colleghe.
I luoghi delle riunioni con le mie colleghe spesso sono state le loro case, altre volte abbiamo utilizzato, come clandestine, uffici di atre, di Proteo o del Centro P.O a seconda del nostro umore e della disponibilità.
Il passaggio da cococo a partita IVA è stato marcato dall’evaporazione dei luoghi di lavoro e dall’aumento dei contatti tenuti telefonicamente…
Il telefono, ancora il telefono…a casa o in macchina durante gli spostamenti.
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Telefonate sui progetti di ore; anche con le amiche -colleghe la priorità era data al lavoro e solo sul finire del discorso ci si concedevano due chiacchiere per raccontarci come stava andando.
Oggi per le riunioni mi sposto io, vado negli uffici, più o meno accoglienti delle persone con cui devo parlare.
La mia stanza da lavoro è lo studio di casa mia, dove, oltre al p.c. portatile ho un fax che fa anche le fotocopie.
Al mio vecchio cellulare se ne sono aggiunti altri due, un vodafone con un contratto fatto da Verano che mette in rete tutta la famiglia a prezzi vantaggiosissimi, un altro, di servizio, che mi è stato dato venerdì scorso dalla direttrice di Proteo.
Privilegio raro riservatomi in quanto coordinatrice di due servizi che coinvolgono complessivamente 10 operatori.
A differenza dei primi anni di lavoro ( il cellulare doveva rimanere sempre acceso perché poteva arrivare qualche proposta interessante, non si sa mai) oggi, l’esperienza e una maggiore sicurezza professionale mi consentono di non essere sempre in allerta: quando devo scrivere, ( un report, una relazione , un progetto) spengo il cellulare e a volte stacco anche il telefono di casa.
Mi capita con le persone con cui collaboro di organizzare a casa un pranzo o un tè di lavoro, così come capita di fare la riunione sul bando provinciale a casa di Silvia perché più tranquilla rispetto a Proteo dove, solo da una settimana , è stata allestita una stanza per le riunioni.
Non è possibile stabilire settimanalmente i giorni dedicati al lavoro a casa e al lavoro fuori, a parte la psicoterapia gli altri impegni si incastrano sull’agenda in modo flessibile, si spostano appuntamenti, ci si organizza con il marito o con la mamma per fare posto ad una riunione convocata all’ultimo momento.
In questa continua altalena, talvolta i due poli, dentro e fuori, tornano a configurare alternative di cui ormai sappiamo l’inganno:
- il fascino e l’ebbrezza di uscire di casa la mattina, cambiate, incontrare gente si scontra con la stanchezza di una corsa che ci vede arrivare sempre un po’ in ritardo;
- la promessa di un tempo più lento del lavoro a casa richiama dimensioni maggiormente rassicuranti, meno estranianti ma continuamente minacciate dal provare a mettere insieme un altro tipo di corsa, il rapporto di ricerca con la preparazione del pranzo e la lavatrice, o al suo opposto una lentezza che vira minacciosa verso la depressione.
Il lavoro fuori casa continua ad occupare un tempo consistente scandito da riunioni con i colleghi, i clienti, i committenti.
Altri luoghi, che pure hanno a che fare con il lavoro, rappresentano spazi di riflessione sul lavoro: il network a Milano, il cantiere a Reggio Emilia, il gruppo su giovani e volontariato.
Le riunioni con i colleghi e con i committenti costituiscono i momenti di confronto sul lavoro rendendo meno privato e più pubblico un percorso professionale in cui gli intrecci tra casa e fuori non sono solo rappresentativi di spazi in cui si svolge il lavoro ma sono anche espressione di una dinamica tra desideri/passioni individuali e possibilità di tradurli in azioni visibili che vadano oltre le mura domestiche, vs il mondo.
Sono momenti in cui il lavoro solitario acquista una visibilità pubblica; tracce di un percorso professionale che via via mi ha visto assumere ruoli diversi con competenze diverse.
Il desiderio che ancora mi spinge a fare un’ora di macchina per andare a Lucca per una riunione, un incontro, forse sta proprio lì, nella possibilità di sviluppare progetti insieme ad altri e mettere in gioco competenze maturate nell’intreccio tra dentro e fuori che è soprattutto dialettica tra desideri e possibilità di realizzarli.
io ho smesso
Io ho smesso. A casa non ci lavoro quasi più.
All’ora di pranzo spengo il cellulare, alle 8 di sera spengo il cellulare. Il mio numero di casa non lo do, non lo do a nessuno che sia legato a me soltanto per “motivi di lavoro”. Segreterie zero, non le ho attivate mai anche se sono gratis. Amo non essere raggiungibile, I need it…ne ho di bisogno.
Quando ho trovato la casa nuova ho pensato che finalmente potevo farmi uno studio.
Non volevo più, mi dissi, lavorare in camera come facevo i compiti da ragazzina. Da qualche parte la crescita si deve pur vedere.
Alla seconda occhiata il previsto spazio, un soppalco sopra il soggiorno, si è rivelato poco corrispondete alle mie attese. In contrasto con le minime regole del feng shui , con il soffitto direttamente sulla testa e l’abisso sotto i piedi era troppo in assonanza con la mia personale vertigine per trovarvi la giusta concentrazione, o forse avevo solo voglia di uscire.
Oggi quello che doveva essere il mio studio è un ripostiglio in crescita continua, caos che si accatasta , si espande (una stanza sprecata dice mia sorella). La scrivania l’ho riportata in camera, appoggiata alla parete come la prima che ho avuto. Posso scrivere solo davanti a un muro, adesso lo so, perché è così che è cominciata. Ma in camera scrivo e leggo solo quello che amo di più. I progetti li faccio fuori da lì, a distanza.
Quando stavo con M. , lui lavorava al piano di sopra e io al piano di sotto e si lavorava come matti.
Il mio tavolo da lavoro era anche il tavolo da pranzo, ma mi ero imposta di fare in modo che non si vedesse troppo, quando mangiavamo liberavo tutto, completamente. Era il mio tributo simbolico, la mia forma di rispetto verso il nostro amore.
Ora un ufficio fuori, uno spazio che mi lasciano usare.
Due volte al mese io non posso usare il “mio ufficio” perché in realtà esso è per tutti “l’ambulatorio del dottore” e il fatto è evidente perché nella stanza c’è il lettino che negli uffici, come si sa, non c’è.
Anche la targhetta sulla porta mi ricorda che sebbene ci vada tutti i giorni, il mio ufficio è “mio” solo per me. Stare qui mi consente di: uscire di casa, di darmi degli orari (alle 7 mi chiudono dentro) , di telefonare a randa, di avere un riscaldamento, in sintesi quel che si dice “scaricare i costi sull’organizzazione”. Quanto alla dimensione pubblica del lavoro non mi illudo. Lavoro da sola come sempre appesa al telefono e alla mail, le riunioni le faccio fuori di qui e non so mai dove farle ...insomma lo spazio resta prevalentemente virtuale e la nostra cittadinanza tutta da costruire. .
All’ora di pranzo spengo il cellulare, alle 8 di sera spengo il cellulare. Il mio numero di casa non lo do, non lo do a nessuno che sia legato a me soltanto per “motivi di lavoro”. Segreterie zero, non le ho attivate mai anche se sono gratis. Amo non essere raggiungibile, I need it…ne ho di bisogno.
Quando ho trovato la casa nuova ho pensato che finalmente potevo farmi uno studio.
Non volevo più, mi dissi, lavorare in camera come facevo i compiti da ragazzina. Da qualche parte la crescita si deve pur vedere.
Alla seconda occhiata il previsto spazio, un soppalco sopra il soggiorno, si è rivelato poco corrispondete alle mie attese. In contrasto con le minime regole del feng shui , con il soffitto direttamente sulla testa e l’abisso sotto i piedi era troppo in assonanza con la mia personale vertigine per trovarvi la giusta concentrazione, o forse avevo solo voglia di uscire.
Oggi quello che doveva essere il mio studio è un ripostiglio in crescita continua, caos che si accatasta , si espande (una stanza sprecata dice mia sorella). La scrivania l’ho riportata in camera, appoggiata alla parete come la prima che ho avuto. Posso scrivere solo davanti a un muro, adesso lo so, perché è così che è cominciata. Ma in camera scrivo e leggo solo quello che amo di più. I progetti li faccio fuori da lì, a distanza.
Quando stavo con M. , lui lavorava al piano di sopra e io al piano di sotto e si lavorava come matti.
Il mio tavolo da lavoro era anche il tavolo da pranzo, ma mi ero imposta di fare in modo che non si vedesse troppo, quando mangiavamo liberavo tutto, completamente. Era il mio tributo simbolico, la mia forma di rispetto verso il nostro amore.
Ora un ufficio fuori, uno spazio che mi lasciano usare.
Due volte al mese io non posso usare il “mio ufficio” perché in realtà esso è per tutti “l’ambulatorio del dottore” e il fatto è evidente perché nella stanza c’è il lettino che negli uffici, come si sa, non c’è.
Anche la targhetta sulla porta mi ricorda che sebbene ci vada tutti i giorni, il mio ufficio è “mio” solo per me. Stare qui mi consente di: uscire di casa, di darmi degli orari (alle 7 mi chiudono dentro) , di telefonare a randa, di avere un riscaldamento, in sintesi quel che si dice “scaricare i costi sull’organizzazione”. Quanto alla dimensione pubblica del lavoro non mi illudo. Lavoro da sola come sempre appesa al telefono e alla mail, le riunioni le faccio fuori di qui e non so mai dove farle ...insomma lo spazio resta prevalentemente virtuale e la nostra cittadinanza tutta da costruire. .
disordine e foglio dei doveri
Mi sveglio. Oggi devo assolutamente lavorare al computer.
Devo scrivere una scheda sui prossimi progetti da presentare da inviare ai colleghi-amici dell’agenzia formativa, ma devo anche scrivere agli educatori della cooperativa perché mi devono mandare i nomi dei ragazzi da iscrivere al centro di aggregazione, oddio anche la lettera alle donne immigrate per il corso…già paolo il mio amico di londra voglio scrivere anche a lui. Ryanair: devo trovare un volo che mi porti un po’ via….la promozione 0.99 scade a mezzanotte.
C’è un casino in casa pazzesco….ci sono state le feste, c’è stata sempre gente, mai da sola. Il caos regna….e i miei “incartamenti” (come gli chiamo io!!) di lavoro ossia cartelline, blocchi, quaderni, fotocopie, fogli volanti…sono finiti chissà dove…messi via velocemente mentre mio nipote di un anno mi stava rivoluzionando la casa. Che fatica….mescolate agli incartamenti ci sono le bollette, scadute, una si e una no. Già buono.
E la multa? C’è anche quella….Sto rimandando da troppo tempo la questione….ormai sarà quintuplicata. Devo assolutamente portarla al mio amico avvocato…che non ne può più.
Ma avevo un foglio, avevo fatto la lista delle cose fondamentali, mentre in casa imperversavano bivaccamenti vari di amici e parenti…ero riuscita ad appartarmi in camera e a fare mente locale, per non allontanarmi troppo dai doveri. Avevo fatto il riassunto delle cose fondamentali…..così per mettermi la coscienza a posto. Non potevo certo fare altro in casa, il pc era diventato uno strumento per cd e dvd e per stare in rete….orari dei treni, cinema, voli low cost, ristoranti maremmani mai raggiunti….figurati se potevo pensare di connettere il cervello alle questioni di lavoro.
Ma dove sarà finito? Forse tra le carte dei regali nel sacco della carta differenziata….sta esplodendo, lo devo buttare via. Ma oggi sarà il giorno? Non è che ci stia così attenta, ma dice che i vigili fanno le multe, cercano nella spazzatura e se trovano una bolletta o qualcosa con il tuo nome…sei finito, multa super sonica. Già troppe per la macchina….anche per la spazzatura non me la sento.
Una mattina sono riuscita a fare una riunione a casa….tra il natale e capodanno….ore 11. il mio fidanzato era stato avvertito….fuori casa. Chiaramente alle 10:30 se la dormiva ancora….ma che palle, ma che fate a casa, ma a che ora vengono, ma sono precisi???….FUORI!!! dai…la casa è piccola..si sente tutto…ti alzi, vai in bagno, no dai…non ce la posso fare. Non sarei connessa al lavoro…ma ai tuoi spostamenti!
Ore 11 arriva il primo collega - amico, Sandro esce dal letto si mette pantaloni maglia e calzini, va al cesso e quando il collega-amico è su, dopo 4 piani di scale….Sandro è già uscito dalla porta. Ma almeno lo potevi salutare!!
Comunque quella mattina abbiamo lavorato….caffè, biscotti e un po’ di cose si sono pensate. E quella mattina ricordo il foglio dei doveri….ci avevo scritto il nuovo dovere, mandare ai colleghi- amici il verbale della riunione.
Uffa…sotto il divano niente….in camera sotto il letto….niente…..si fa per dire. E’ passato il nipote ninja….quindi ci sono mandarini, cd, e ammassi di polvere interessanti, nonostante abbia passato il devoto swiffer anche la notte dell’ultimo dell’anno. Vabbè ero un po’ alterata… e più che fare le pulizie facevo una performance….mentre il mio fidanzato suonava la tromba e paolo e claire non credevano ai loro occhi ma partecipavano. Già…già…partecipavano eccome!
Ce la posso fare anche senza il foglio dei doveri….dai lo sai, le cose da fare sono quelle.
Oddio che fatica…invece non ce la posso fare. Non riesco a scollegarmi dal casino della casa, prima di iniziare a lavorare devo mettere a posto….già poi avevo detto che volevo riiniziare ad andare in piscina. Che vita dura….
Via! Maglie e pantaloni a posto nell’armadio che è in sala…vicino vicino al pc, lavatrice da stendere, libri da sistemare, posta da aprire, piatti da lavare…..oh! ma è ora di pranzo…ho fame…oddio…che vita dura.
E poi avevo detto alla mia amica, che è un po’ che non vedo che si prendeva il caffè insieme….ma quale caffè! Sono nel caos disorganizzativo massimo (e purtroppo non è una condizione rara)….sto implodendo.
Ed ecco infatti che una forza centripeta mi butta fuori, non ce la faccio più a stare in casa, non ho trovato il malefico foglio che mi risolveva la vita….la casa è ancora nel caos, non ho voglia di cucinarmi perché prima dovrei lavare e sistemare…no dai…che vita dura.
Ok, mangio un panino giù e poi inizio a sistemare…l’esterno…mi vesto, mi do la crema, mi lego i capelli…si fa quel che si può e inizio dalle bollette, dalle multe e dalla banca.
Cosa fatta, capo ha!
La casa per ora non è pronta per lavorare e la padrona neanche!
E speriamo di non farmi venire in mente di mettere a posto le fatture di lavoro…per capire chi mi ha pagato e chi no…altrimenti non inizierò mai più.
Devo scrivere una scheda sui prossimi progetti da presentare da inviare ai colleghi-amici dell’agenzia formativa, ma devo anche scrivere agli educatori della cooperativa perché mi devono mandare i nomi dei ragazzi da iscrivere al centro di aggregazione, oddio anche la lettera alle donne immigrate per il corso…già paolo il mio amico di londra voglio scrivere anche a lui. Ryanair: devo trovare un volo che mi porti un po’ via….la promozione 0.99 scade a mezzanotte.
C’è un casino in casa pazzesco….ci sono state le feste, c’è stata sempre gente, mai da sola. Il caos regna….e i miei “incartamenti” (come gli chiamo io!!) di lavoro ossia cartelline, blocchi, quaderni, fotocopie, fogli volanti…sono finiti chissà dove…messi via velocemente mentre mio nipote di un anno mi stava rivoluzionando la casa. Che fatica….mescolate agli incartamenti ci sono le bollette, scadute, una si e una no. Già buono.
E la multa? C’è anche quella….Sto rimandando da troppo tempo la questione….ormai sarà quintuplicata. Devo assolutamente portarla al mio amico avvocato…che non ne può più.
Ma avevo un foglio, avevo fatto la lista delle cose fondamentali, mentre in casa imperversavano bivaccamenti vari di amici e parenti…ero riuscita ad appartarmi in camera e a fare mente locale, per non allontanarmi troppo dai doveri. Avevo fatto il riassunto delle cose fondamentali…..così per mettermi la coscienza a posto. Non potevo certo fare altro in casa, il pc era diventato uno strumento per cd e dvd e per stare in rete….orari dei treni, cinema, voli low cost, ristoranti maremmani mai raggiunti….figurati se potevo pensare di connettere il cervello alle questioni di lavoro.
Ma dove sarà finito? Forse tra le carte dei regali nel sacco della carta differenziata….sta esplodendo, lo devo buttare via. Ma oggi sarà il giorno? Non è che ci stia così attenta, ma dice che i vigili fanno le multe, cercano nella spazzatura e se trovano una bolletta o qualcosa con il tuo nome…sei finito, multa super sonica. Già troppe per la macchina….anche per la spazzatura non me la sento.
Una mattina sono riuscita a fare una riunione a casa….tra il natale e capodanno….ore 11. il mio fidanzato era stato avvertito….fuori casa. Chiaramente alle 10:30 se la dormiva ancora….ma che palle, ma che fate a casa, ma a che ora vengono, ma sono precisi???….FUORI!!! dai…la casa è piccola..si sente tutto…ti alzi, vai in bagno, no dai…non ce la posso fare. Non sarei connessa al lavoro…ma ai tuoi spostamenti!
Ore 11 arriva il primo collega - amico, Sandro esce dal letto si mette pantaloni maglia e calzini, va al cesso e quando il collega-amico è su, dopo 4 piani di scale….Sandro è già uscito dalla porta. Ma almeno lo potevi salutare!!
Comunque quella mattina abbiamo lavorato….caffè, biscotti e un po’ di cose si sono pensate. E quella mattina ricordo il foglio dei doveri….ci avevo scritto il nuovo dovere, mandare ai colleghi- amici il verbale della riunione.
Uffa…sotto il divano niente….in camera sotto il letto….niente…..si fa per dire. E’ passato il nipote ninja….quindi ci sono mandarini, cd, e ammassi di polvere interessanti, nonostante abbia passato il devoto swiffer anche la notte dell’ultimo dell’anno. Vabbè ero un po’ alterata… e più che fare le pulizie facevo una performance….mentre il mio fidanzato suonava la tromba e paolo e claire non credevano ai loro occhi ma partecipavano. Già…già…partecipavano eccome!
Ce la posso fare anche senza il foglio dei doveri….dai lo sai, le cose da fare sono quelle.
Oddio che fatica…invece non ce la posso fare. Non riesco a scollegarmi dal casino della casa, prima di iniziare a lavorare devo mettere a posto….già poi avevo detto che volevo riiniziare ad andare in piscina. Che vita dura….
Via! Maglie e pantaloni a posto nell’armadio che è in sala…vicino vicino al pc, lavatrice da stendere, libri da sistemare, posta da aprire, piatti da lavare…..oh! ma è ora di pranzo…ho fame…oddio…che vita dura.
E poi avevo detto alla mia amica, che è un po’ che non vedo che si prendeva il caffè insieme….ma quale caffè! Sono nel caos disorganizzativo massimo (e purtroppo non è una condizione rara)….sto implodendo.
Ed ecco infatti che una forza centripeta mi butta fuori, non ce la faccio più a stare in casa, non ho trovato il malefico foglio che mi risolveva la vita….la casa è ancora nel caos, non ho voglia di cucinarmi perché prima dovrei lavare e sistemare…no dai…che vita dura.
Ok, mangio un panino giù e poi inizio a sistemare…l’esterno…mi vesto, mi do la crema, mi lego i capelli…si fa quel che si può e inizio dalle bollette, dalle multe e dalla banca.
Cosa fatta, capo ha!
La casa per ora non è pronta per lavorare e la padrona neanche!
E speriamo di non farmi venire in mente di mettere a posto le fatture di lavoro…per capire chi mi ha pagato e chi no…altrimenti non inizierò mai più.
la stanza di silvia
La mia formazione è fatta di studi universitari socio-politici e di cinema, poi di 15 anni di pratica sul cinema documentario
Sono iscritta al collocamento dello spettacolo come regista, di fatto ho lavorato sempre nell’ambito del cinema documentario, come regista, come ricercatrice, ma anche parallelamente in ambito educativo sempre su materie audiovisive (docenze in corsi di formazione professionale, in progetti per le scuole superiori e in corsi di aggiornamento per insegnanti, docenze a contratto e seminari per le università di Bologna, Pisa, Ferrara)
Il mio lavoro è stato prevalentemente nomade, fino a tre anni fa, ora lavoro soprattutto a casa.
Quando sono uscita dalla casa dei miei genitori per andare a studiare all’università a Bologna ho compreso da subito l’esigenza fondamentale di un luogo tutto per me, anche se convivevo con altre tre mie amiche. Una scrivania in disordine e un muro tappezzato da fogli disegni e fotografie, appesi su una lavagna magnetica. Il mio luogo.
Quando tornavo a casa a Ravenna la situazione era diversa, perché ho sempre condiviso tutto con mia sorella, dalla stanza alla scrivania, dagli abiti ai libri. Pertanto quando 10 anni fa sono andata a convivere con il mio attuale compagno, ho preteso un angolo della nostra minuscola casa per il mio pc e i miei libri. E non è stato facile perché per chi, come lui, non aveva mai lavorato a casa, ma sempre fuori in uffici, era un’esigenza un po’ “egoista” quella di sottrarre spazio a una casa già piccola: una scrivania in vetro dove a fatica ci stava la tastiera mouse stampante e il video, ma poco spazio per fogli e libri. Così regolarmente quando era a casa da sola a progettare scrivere e pensare mi “allargavo”, sconfinando sul tavolo della cucina o sul divano, distanti di pochi metri l’uno dall’altro. Poi quando sapevo che non sarei stata più sola in casa, risistemavo alla meglio: i libri i fogli gli schizzi le cassette i dvd i nastri della telecamera, ammucchiando disordinatamente sulla mia scrivania. Il paragone con la scrivania antica del mio compagno, che era nella seconda stanza di casa – la camera da letto – era sconfortante: lui ordinato e scarno nei pochi oggetti, io caotica e incontenibile. Nei periodi di intenso lavoro: come quando dovevo scrivere e progettare film, il caos e gli oggetti crescevano ed era sempre più difficile sistemarli in modo che non ostruissero lo spazio comune, e quando dovevo fare riunioni di lavoro con colleghi e amici, la mia piccola casa colorata era ancora più stretta, e l’unica stanza che svolgeva tante funzioni (studio salotto cucina) si trasformava in un affollato ufficio di progettazione. Ho persino fatto l’analisi delle riprese di un film che stavo realizzando con ben 8 persone (tra produttore, direttore e assistente della fotografia, fonico, segretaria di edizione, organizzatore e altri) sistemati tra il divano le sedie e le poltrone e i pouf. Poi quattro anni fa ho cambiato casa e ho lottato con i denti per ottenere una “stanza tutta per me”, uno studio in fondo alla casa, ricavato da una lavanderia costruita negli anni settanta. Era un luogo di lavoro per donne: una lavanderia e due balconi per stendere i panni. Con la complicità di mia sorella architetto, che ha progettato la ristrutturazione, è nata la mia stanza. L’orgoglio mi ha spinto a chiamarla anche la STANZA DI SILVIA con tanto di targa. È una stanza di circa 9 mq illuminata da una enorme vetrata sul lato nord ovest con un piccolo balcone sul giardino interno e con una portafinestra sul ballatoio che costeggia la casa. Mio padre mi ha regalato un lungo tavolo in vetro e tubi cromati, un tavolo da design smantellato da un negozio di abbigliamento, sopra regna il disordine e la confusione che mi accompagnano sempre: monitor grande, pc portatile con stampante, cavi usb, modem adsl, mouse, calendario da tavolo, penne colorate, fogli scarabocchiati, dvd impilati che aspettano di essere visti, quadernetti di appunti, occhiali e fotografie. Alla mie spalle ho fatto costruire 8 lunghe mensole in legno che coprono l’intera parete e li c’è il mio regno, la mia storia lavorativa e personale (perché i libri sono in un’altra libreria in salotto): vhs e dvd di film, super 8 con cineprese e proiettore, libri e riviste di cinema e comunicazione, cartelline colorate piene di progetti lettere appunti di lavoro, o di articoli di giornale, i master dei film o le copie, i super 8 della mia infanzia. Nella mensola centrale c’è il limbo: pennarelli, tempere, colori a olio, pennelli, disketti, dvd, cd rom, pellicole fotografiche, i-pod e telecamera, raccoglitori con i progetti realizzati o in corso o che vorrei fare (da BULOW, ANDIAMO A GENOVA! LA TRAMA E L’ORDITO, CINEGIORNALE LIBERO ZA, SEQUENZE SUL G8, GARDINI:PROGETTO PER UN FILM SCOMODO, LE SORELLE DI SHAKESPEARE) una cartellina con la rassegna stampa, una cartellina che raccoglie appunti e spunti per idee di film futuri, una sui contratti e compensi dal 1999, ecc. Poi al centro della mensola una pila informe con fogli stampati e scarabocchiati, che nella mia logica dovrebbe contenere il materiale di lavoro attuale: le scalette delle lezioni all’università di Ferrara e l’indice e i primi capitoli del libro che sto scrivendo sul cinema documentario. Ma dato che la scrivania è lunga, la considero una sorta di appendice del mio pensiero e ci appoggio tutto quanto possa ricordarmi le cose da fare da lì a poco: devo cucire un libro tattile da regalare a mio figlio e allora ecco la scatola di metallo con ago e fili e bottoni, il sacchetto con le stoffe colorate e i fogli con i disegni degli animali. Ma anche i film dvd che devo vedere, scovati da un archivio di cinema famigliare con cui lavoro. Ma non mi accontento: a volte ci sono anche le mollette dei panni da stendere. Perché questa stanza oltre ad essere uno studio per il mio lavoro immateriale e intellettuale a volte diventa anche la stanza di una tipica donna di casa: ho la lavatrice nella stanzetta a fianco e lo stendipanni nel balcone adiacente, e la mia stanza diventa il luogo di passaggio per raccogliere estendere gli abiti lavati. Nella parete azzurra di fronte alla scrivania ho appeso stampe fotografiche: il poster di una proiezione pubblica di un film che ho fatto e di cui sono molto legata, un mio disegno da piccola che rappresenta 4 strane figure di donne, a metà strada tra le fate e le streghe, una foto di un famoso fotografo cubano – Raul Corrales -che ritrae una malinconica guerrigliera nicaraguese, due foto di Tina Modotti, una foto-ritratto di un’amica fotografa che riprende quattro amiche (compresa la sottoscritta) il giorno del matrimonio di una di loro e una grande riproduzione di una foto di Salgado intitolata In cammino, che ritengo sia una bella metafora della mia situazione di donna, in continuo divenire in cammino perenne, non solo fisicamente, dato che ho fatto per anni una vita nomade: lavoravo e vivevo a Roma una settimana al mese di media.
Anche la mia professione cambia ogni giorno e non sono ancora riuscita a fare progetti lavorativi a lunga scadenza, ora più che mai, con la nascita di un figlio è cambiato drasticamente tutto: sono molto più stanziale e il mio lavoro si è stabilizzato in casa. ho scelto per ora attività che posso fare dal mio studio collegata al mio pc: scrivo saggi e ora anche un libro, insegno in una sede universitaria che ha scelto la metodologia dell’e-learning, quindi insegno tramite pc e web. Non ho per ora una produttività alta, come era prima della nascita di Jacopo, e mi ritaglio la giornata di lavoro quando sono sola, ovvero quando il bambino è all’asilo, ovvero dalle otto alle sedici. Quando sono in difficoltà per le scadenze ravvicinate o per la mole di lavoro che non controllo chiedo aiuto al padre e alle nonne. E’ cambiato anche il mio spazio, perché ora, in quella che ritenevo solo la MIA STANZA, si è trasformata in un generico STUDIO, da quando Paolo, mio marito, ha cambiato lavoro: da lavoratore a contratto a tempo indeterminato, ha cambiato sede e forma contrattuale, ma non ruolo: lavora a Bergamo con un contratto a progetto e non avendo più un orario fisso e un cartellino da timbrare, trascorre il suo tempo di lavoro tra lo studio (ora attrezzato con una scrivania in più e un portatile) e l’estero (Europa e nord africa). Per me è ancora il mio spazio e considero la sua intrusione come momentanea, anche perché la porzione di spazio che occupa lui è minoritaria rispetto alla mia e, come gli ho sottolineato, è una convivenza rispettosa ma non democratica!
Confesso che mi manca un po’ la mia vita da nomade, i viaggi in treno che mi aiutavano anche a scrivere leggere e pensare, da sola anche se attorniata da persone, il lavoro totalmente coinvolgente del fare film, e la concentrazione che riuscivo a mantenere senza sentire i morsi della fame o il telefono che squillava. Ora fatico a ritrovare questi spazi e quando Jacopo entra nel mio studio e mette in discussione il mio ordine disordinato, frugando nei cassetti, mi innervosisco perché non riesco a seguire i suoi movimenti e il mio pensiero che tento di seguire trascrivendolo con parole e tastiera.
Non mi pesa il mio sentirmi diversa dalle altre mamme che hanno lavori ufficiali e riconoscibili. Quando parlo con le altre donne so che il mio è uno stato professionale non normale: non ho un ufficio con altri, non ho le ferie, non ho un orario fisso, non ho maternità malattia ecc. Ma è una scelta, che costa ma ha anche forti vantaggi. I tempi e gli orari di lavoro sono diversi da quelli delle altre e mi piace molto il tempo che dedico ai miei tempi di vita in città, quando so che altri sono chiusi in uffici o luoghi di lavoro con orari fissi, mi riapproprio degli spazi della città come se vivessi in una perenne stato da studentessa universitaria.
Sono convinta però che il mio lavoro sia poco riconosciuto da chi mi circonda, tanto che se il bambino si ammala, è ovvio e naturale che sia io ,ad occuparmene, accantonando il mio lavoro di scrittura e di ricerca. Con le conseguenze di dover lavorare la notte o nelle ore di sonno del bambino con ansia per i tempi strettissimi. Così spesso mi dimentico di essere ancora una donna che ha anche delle esigenze sue, anche se non vitali, ma almeno di sopravvivenza mentale.
Sono iscritta al collocamento dello spettacolo come regista, di fatto ho lavorato sempre nell’ambito del cinema documentario, come regista, come ricercatrice, ma anche parallelamente in ambito educativo sempre su materie audiovisive (docenze in corsi di formazione professionale, in progetti per le scuole superiori e in corsi di aggiornamento per insegnanti, docenze a contratto e seminari per le università di Bologna, Pisa, Ferrara)
Il mio lavoro è stato prevalentemente nomade, fino a tre anni fa, ora lavoro soprattutto a casa.
Quando sono uscita dalla casa dei miei genitori per andare a studiare all’università a Bologna ho compreso da subito l’esigenza fondamentale di un luogo tutto per me, anche se convivevo con altre tre mie amiche. Una scrivania in disordine e un muro tappezzato da fogli disegni e fotografie, appesi su una lavagna magnetica. Il mio luogo.
Quando tornavo a casa a Ravenna la situazione era diversa, perché ho sempre condiviso tutto con mia sorella, dalla stanza alla scrivania, dagli abiti ai libri. Pertanto quando 10 anni fa sono andata a convivere con il mio attuale compagno, ho preteso un angolo della nostra minuscola casa per il mio pc e i miei libri. E non è stato facile perché per chi, come lui, non aveva mai lavorato a casa, ma sempre fuori in uffici, era un’esigenza un po’ “egoista” quella di sottrarre spazio a una casa già piccola: una scrivania in vetro dove a fatica ci stava la tastiera mouse stampante e il video, ma poco spazio per fogli e libri. Così regolarmente quando era a casa da sola a progettare scrivere e pensare mi “allargavo”, sconfinando sul tavolo della cucina o sul divano, distanti di pochi metri l’uno dall’altro. Poi quando sapevo che non sarei stata più sola in casa, risistemavo alla meglio: i libri i fogli gli schizzi le cassette i dvd i nastri della telecamera, ammucchiando disordinatamente sulla mia scrivania. Il paragone con la scrivania antica del mio compagno, che era nella seconda stanza di casa – la camera da letto – era sconfortante: lui ordinato e scarno nei pochi oggetti, io caotica e incontenibile. Nei periodi di intenso lavoro: come quando dovevo scrivere e progettare film, il caos e gli oggetti crescevano ed era sempre più difficile sistemarli in modo che non ostruissero lo spazio comune, e quando dovevo fare riunioni di lavoro con colleghi e amici, la mia piccola casa colorata era ancora più stretta, e l’unica stanza che svolgeva tante funzioni (studio salotto cucina) si trasformava in un affollato ufficio di progettazione. Ho persino fatto l’analisi delle riprese di un film che stavo realizzando con ben 8 persone (tra produttore, direttore e assistente della fotografia, fonico, segretaria di edizione, organizzatore e altri) sistemati tra il divano le sedie e le poltrone e i pouf. Poi quattro anni fa ho cambiato casa e ho lottato con i denti per ottenere una “stanza tutta per me”, uno studio in fondo alla casa, ricavato da una lavanderia costruita negli anni settanta. Era un luogo di lavoro per donne: una lavanderia e due balconi per stendere i panni. Con la complicità di mia sorella architetto, che ha progettato la ristrutturazione, è nata la mia stanza. L’orgoglio mi ha spinto a chiamarla anche la STANZA DI SILVIA con tanto di targa. È una stanza di circa 9 mq illuminata da una enorme vetrata sul lato nord ovest con un piccolo balcone sul giardino interno e con una portafinestra sul ballatoio che costeggia la casa. Mio padre mi ha regalato un lungo tavolo in vetro e tubi cromati, un tavolo da design smantellato da un negozio di abbigliamento, sopra regna il disordine e la confusione che mi accompagnano sempre: monitor grande, pc portatile con stampante, cavi usb, modem adsl, mouse, calendario da tavolo, penne colorate, fogli scarabocchiati, dvd impilati che aspettano di essere visti, quadernetti di appunti, occhiali e fotografie. Alla mie spalle ho fatto costruire 8 lunghe mensole in legno che coprono l’intera parete e li c’è il mio regno, la mia storia lavorativa e personale (perché i libri sono in un’altra libreria in salotto): vhs e dvd di film, super 8 con cineprese e proiettore, libri e riviste di cinema e comunicazione, cartelline colorate piene di progetti lettere appunti di lavoro, o di articoli di giornale, i master dei film o le copie, i super 8 della mia infanzia. Nella mensola centrale c’è il limbo: pennarelli, tempere, colori a olio, pennelli, disketti, dvd, cd rom, pellicole fotografiche, i-pod e telecamera, raccoglitori con i progetti realizzati o in corso o che vorrei fare (da BULOW, ANDIAMO A GENOVA! LA TRAMA E L’ORDITO, CINEGIORNALE LIBERO ZA, SEQUENZE SUL G8, GARDINI:PROGETTO PER UN FILM SCOMODO, LE SORELLE DI SHAKESPEARE) una cartellina con la rassegna stampa, una cartellina che raccoglie appunti e spunti per idee di film futuri, una sui contratti e compensi dal 1999, ecc. Poi al centro della mensola una pila informe con fogli stampati e scarabocchiati, che nella mia logica dovrebbe contenere il materiale di lavoro attuale: le scalette delle lezioni all’università di Ferrara e l’indice e i primi capitoli del libro che sto scrivendo sul cinema documentario. Ma dato che la scrivania è lunga, la considero una sorta di appendice del mio pensiero e ci appoggio tutto quanto possa ricordarmi le cose da fare da lì a poco: devo cucire un libro tattile da regalare a mio figlio e allora ecco la scatola di metallo con ago e fili e bottoni, il sacchetto con le stoffe colorate e i fogli con i disegni degli animali. Ma anche i film dvd che devo vedere, scovati da un archivio di cinema famigliare con cui lavoro. Ma non mi accontento: a volte ci sono anche le mollette dei panni da stendere. Perché questa stanza oltre ad essere uno studio per il mio lavoro immateriale e intellettuale a volte diventa anche la stanza di una tipica donna di casa: ho la lavatrice nella stanzetta a fianco e lo stendipanni nel balcone adiacente, e la mia stanza diventa il luogo di passaggio per raccogliere estendere gli abiti lavati. Nella parete azzurra di fronte alla scrivania ho appeso stampe fotografiche: il poster di una proiezione pubblica di un film che ho fatto e di cui sono molto legata, un mio disegno da piccola che rappresenta 4 strane figure di donne, a metà strada tra le fate e le streghe, una foto di un famoso fotografo cubano – Raul Corrales -che ritrae una malinconica guerrigliera nicaraguese, due foto di Tina Modotti, una foto-ritratto di un’amica fotografa che riprende quattro amiche (compresa la sottoscritta) il giorno del matrimonio di una di loro e una grande riproduzione di una foto di Salgado intitolata In cammino, che ritengo sia una bella metafora della mia situazione di donna, in continuo divenire in cammino perenne, non solo fisicamente, dato che ho fatto per anni una vita nomade: lavoravo e vivevo a Roma una settimana al mese di media.
Anche la mia professione cambia ogni giorno e non sono ancora riuscita a fare progetti lavorativi a lunga scadenza, ora più che mai, con la nascita di un figlio è cambiato drasticamente tutto: sono molto più stanziale e il mio lavoro si è stabilizzato in casa. ho scelto per ora attività che posso fare dal mio studio collegata al mio pc: scrivo saggi e ora anche un libro, insegno in una sede universitaria che ha scelto la metodologia dell’e-learning, quindi insegno tramite pc e web. Non ho per ora una produttività alta, come era prima della nascita di Jacopo, e mi ritaglio la giornata di lavoro quando sono sola, ovvero quando il bambino è all’asilo, ovvero dalle otto alle sedici. Quando sono in difficoltà per le scadenze ravvicinate o per la mole di lavoro che non controllo chiedo aiuto al padre e alle nonne. E’ cambiato anche il mio spazio, perché ora, in quella che ritenevo solo la MIA STANZA, si è trasformata in un generico STUDIO, da quando Paolo, mio marito, ha cambiato lavoro: da lavoratore a contratto a tempo indeterminato, ha cambiato sede e forma contrattuale, ma non ruolo: lavora a Bergamo con un contratto a progetto e non avendo più un orario fisso e un cartellino da timbrare, trascorre il suo tempo di lavoro tra lo studio (ora attrezzato con una scrivania in più e un portatile) e l’estero (Europa e nord africa). Per me è ancora il mio spazio e considero la sua intrusione come momentanea, anche perché la porzione di spazio che occupa lui è minoritaria rispetto alla mia e, come gli ho sottolineato, è una convivenza rispettosa ma non democratica!
Confesso che mi manca un po’ la mia vita da nomade, i viaggi in treno che mi aiutavano anche a scrivere leggere e pensare, da sola anche se attorniata da persone, il lavoro totalmente coinvolgente del fare film, e la concentrazione che riuscivo a mantenere senza sentire i morsi della fame o il telefono che squillava. Ora fatico a ritrovare questi spazi e quando Jacopo entra nel mio studio e mette in discussione il mio ordine disordinato, frugando nei cassetti, mi innervosisco perché non riesco a seguire i suoi movimenti e il mio pensiero che tento di seguire trascrivendolo con parole e tastiera.
Non mi pesa il mio sentirmi diversa dalle altre mamme che hanno lavori ufficiali e riconoscibili. Quando parlo con le altre donne so che il mio è uno stato professionale non normale: non ho un ufficio con altri, non ho le ferie, non ho un orario fisso, non ho maternità malattia ecc. Ma è una scelta, che costa ma ha anche forti vantaggi. I tempi e gli orari di lavoro sono diversi da quelli delle altre e mi piace molto il tempo che dedico ai miei tempi di vita in città, quando so che altri sono chiusi in uffici o luoghi di lavoro con orari fissi, mi riapproprio degli spazi della città come se vivessi in una perenne stato da studentessa universitaria.
Sono convinta però che il mio lavoro sia poco riconosciuto da chi mi circonda, tanto che se il bambino si ammala, è ovvio e naturale che sia io ,ad occuparmene, accantonando il mio lavoro di scrittura e di ricerca. Con le conseguenze di dover lavorare la notte o nelle ore di sonno del bambino con ansia per i tempi strettissimi. Così spesso mi dimentico di essere ancora una donna che ha anche delle esigenze sue, anche se non vitali, ma almeno di sopravvivenza mentale.
lavorare in mansarda
Mi sono laureata in filosofia alla Statale di Milano nel 1996 con un orientamento di educazione degli adulti. La mia formazione post laurea, a parte alcuni passaggi, si è sviluppata intorno all’aps: ciclo formatori, seminari, ecc
Sono libera professionista da un bel po’ di tempo. Ho aperto la P.Iva nel 1999. Non ho mai svolto nessun lavoro dipendente. Forse lo dico perché, per me, ha che fare con il fatto di non aver mai sviluppato appartenenze forti o totalizzanti (e non le ho mai cercate) e quindi di non aver mai sperimentato il lavoro in qualche luogo fisico, ufficio o altro (a parte rarissimi momenti).
Ora mi occupo di formazione e ricerca sociale. I miei clienti più grossi? Da alcuni anni l’università di Bergamo per cui seguo i tirocini di scienze dell’educazione e, per esempio, la Provincia di trento, con cui si sta sviluppando da anni, insieme ad altri colleghi, la formazione delle insegnanti di scuola d’infanzia. Altri clienti sono sindacati, associazioni di categoria o l’università di Bergamo su altri versanti (con il Centro di ricerca interdisciplinare Scienze Umane Salute e Malattia), il mondo Cooperativo, Associazioni, Asl, ecc.
Vivo in un paese, Mozzo, nelle immediate vicinanze di Bergamo da circa quattro anni e mezzo.
Il mio è un appartamento su due piani: al primo piano ci sono il soggiorno cottura, la camera da letto e uno dei due bagni. Salendo invece c’è una mansarda: è ampia, spaziosa e luminosa. La mansarda è la parte della casa che sento più mia, che mi piace di più, in cui passo più tempo ‘sveglia’. C’è un’ampia scrivania purtroppo perennemente in disordine, una libreria, degli altri scaffali ma c’è anche un ‘angolo’ relax con un divano, la tv, e un letto per gli ospiti. La mansarda è il luogo della casa che ho personalizzato di più… ci sono, appesi alle travi, i disegni dei miei nipotini, Chiara e Paolo, ci sono gli oggetti portati dai viaggi africani. E’ un luogo caldo e accogliente e guardando dalla grande porta finestra senza tende vedo le montagne.
Ovviamente sulla scrivania ho il Pc fisso (ho anche un pc portatile comprato per vari motivi tra i quali per il lavoro di trento e per l’università) e mi siedo su una fantastica (e costosa!!) poltrona ergonomica della Stokke che spesso mi induce più a rilassarmi che a lavorare. Ahimè… la capacità di tenere la concentrazione non è il mio punto di forza.
Il lavoro di progettazione degli interventi che faccio avviene quasi integralmente in casa e quindi alla scrivania della mansarda.
Un altro dato: vivo da sola e non ho mai sperimentato convivenze con i fidanzati.
Da questo prima descrizione penso che si intuisca che, al momento, non vivo il problema dello spazio in quanto tale. Ma penso sia stata una decisione presa quando ho deciso di acquistare, con un mutuo, la casa. Non riuscivo proprio a pensarmi in un bilocale… forse anche perché ho sempre vissuto in una casa non piccolissima. Quando ho visto la mansarda ho subito pensato che potesse essere il luogo di lavoro e di accoglienza (in realtà poi alle cene con gli amici si sta al piano inferiore); non ho pensato: “qui ci metto la camera da letto”. Era per me il luogo più bello e valeva la pena di viverlo e riempirlo di oggetti e significati per me importanti sotto certi punti di vista.
Inoltre, vivendo da sola, il problema forse è più con me stessa.. Quello che vivo è, al limite, una questione di organizzazione degli oggetti di lavoro nello spazio domestico. A volte gli spazi subiscono una vera è propria invasione! Penso che ciò sia dovuto essenzialmente al mio essere piuttosto disordinata (salvo poi riordinare ciclicamente quando il tutto raggiunge il massimo grado di entropia) ma mi chiedo se sia solo questo. Potrei dire che tutto ciò rappresenta una sorta di metafora del mio rapporto tra tempo lavoro e tempo libero/per me.
Gli oggetti (i faldoni, le cartellette, i fogli, i libri, ecc) non stanno solo sulla scrivania.. spesso arrivo a casa e li appoggio sul tavolo dell cucina e li, nei giorni in cui sono si corsa, stazionano a volte giorni. Certo quando qualcuno visita riordino e se condividessi la casa con qualcuno dovrei darmi delle regole diverse. E così pure intorno alla mia scrivania ci sono i disegni, alcune foto…insomma gli affetti. La sensazione è quello che tutto sia un po’ mischiato… Quando sono in ansia lo vivo con un po’ di fastidio ma, in genere, non ci faccio più caso. Per me è normale che sia così. Così come è normale mentre sto lavorando far partire la lavatrice o stendere o cucinare qualcosa oppure rispondere al telefono ad un’amica o fare uno spuntino. Anche qui addebito molto alla mia bassa capacità di concentrarmi (ogni scusa è buona per interrompermi) però tutto è…non so come…dire (e ci rifletto solo ora scrivendo) molto più domestico, nel senso conosciuto e caricato di calore. Insomma ci sono i pro e i contro.
Non saprei bene che dire sull'organizzazione del quotidiano. Il mio quotidiano ha tempi e ritmi molto diversi da giornata a giornata. Ci sono giorni o mezze giornate in cui sono a casa a lavorare e giorni in cui sono fuori dalla mattina presto sino a sera tardi. Ecco, forse mi manca (o forse no?) un’idea di un ritmo, di un qualcosa che si ripeta e che ritualizzi. Non riesco a pensare bene a delle costanti organizzative. Forse per me è difficile pensare che, in una settimana, sono fuori tutto il giorno senza avere almeno un pomeriggio a casa.Alla posta elettronica riesco a rispondere la sera (ma se sono a casa più volte al giorno: una mia dipendenza!) ma ci sono cose che hanno bisogno di un tempo meno frazionato e anche della casa non riesco a prendermi cura negli spazi serali (mi sento un po’ viziata)
Certo, nella mia organizzazione prevalgono sicuramente i tempo del lavoro.
In genere non uso la casa per riunione tra colleghi ecc. Di solito ci si incontra in uffici (es, Università) ma non avrei problemi a farle qui, almeno con i colleghi che sento più vicini.
Come si sarà capito ci sono molte variabili e poche costanti. Forse la costante reale è proprio data, nella variabilità grande del mio lavoro, proprio dal luogo principale in cui penso, progetto (non l’unico certo perché forse le cose migliore avvengono nell’incontro e nel dialogo con i colleghi intorno ad altri tavoli), cioè la mia casa.
Sento che una parte del rapporto si gioca nel fatto che l’ambiente privato è per me l’ambiente della cura, del back professionale, del ripensare (anche se ciò avviene molto anche eni non-luoghi del viaggiare), del riposo. Vedo l’ambiente provato come ciò che mi permette di reggere la dimensione pubblica. E’ anche il luogo in cui si abbassano le “difese”, in cui talvolta (se non al cellulare) ti prendi un appuntamento telefonico con l’amico/a collega per confrontarsi su alcune cose che magari senti di non aver gestito come desideravi… Ecco ora mi viene un pensiero ma prendilo così, ci dovrei riflettere meglio e per di più e al confine di questioni psicologiche personali che non so quanto interessino: è come se il pubblico a me rischiamasse più il maschile e l’ambiente privato il femminile. Lo so, ho scoperto l’acqua calda…. Però quando sono in aula (meno se sono a progettare con dei colleghi) so che ho un’immagine professionale, e quindi pubblica; so che ho un potere (ahimè) che devo gestire con equilibrio; so che sono giudicata per quello che dico e faccio.
Devo essere sincera: non vorrei fare un lavoro che avesse però una parte bassa di dimensione pubblica. Pe me è importante uscire e mettere “alla prova” quello che penso in casa; è essenziale incontrare le persone con i loro pensieri e le loro esperienze se non su cosa lavorerei? E poi, in quanto donna che viene da una famiglia in cui la mamma ha sempre e solo lavorato (e molto e poco riconosciuta) in casa, lavorare in una visibilità degli altri è anche un modo per affrancarsi da alcune radici.
Sono libera professionista da un bel po’ di tempo. Ho aperto la P.Iva nel 1999. Non ho mai svolto nessun lavoro dipendente. Forse lo dico perché, per me, ha che fare con il fatto di non aver mai sviluppato appartenenze forti o totalizzanti (e non le ho mai cercate) e quindi di non aver mai sperimentato il lavoro in qualche luogo fisico, ufficio o altro (a parte rarissimi momenti).
Ora mi occupo di formazione e ricerca sociale. I miei clienti più grossi? Da alcuni anni l’università di Bergamo per cui seguo i tirocini di scienze dell’educazione e, per esempio, la Provincia di trento, con cui si sta sviluppando da anni, insieme ad altri colleghi, la formazione delle insegnanti di scuola d’infanzia. Altri clienti sono sindacati, associazioni di categoria o l’università di Bergamo su altri versanti (con il Centro di ricerca interdisciplinare Scienze Umane Salute e Malattia), il mondo Cooperativo, Associazioni, Asl, ecc.
Vivo in un paese, Mozzo, nelle immediate vicinanze di Bergamo da circa quattro anni e mezzo.
Il mio è un appartamento su due piani: al primo piano ci sono il soggiorno cottura, la camera da letto e uno dei due bagni. Salendo invece c’è una mansarda: è ampia, spaziosa e luminosa. La mansarda è la parte della casa che sento più mia, che mi piace di più, in cui passo più tempo ‘sveglia’. C’è un’ampia scrivania purtroppo perennemente in disordine, una libreria, degli altri scaffali ma c’è anche un ‘angolo’ relax con un divano, la tv, e un letto per gli ospiti. La mansarda è il luogo della casa che ho personalizzato di più… ci sono, appesi alle travi, i disegni dei miei nipotini, Chiara e Paolo, ci sono gli oggetti portati dai viaggi africani. E’ un luogo caldo e accogliente e guardando dalla grande porta finestra senza tende vedo le montagne.
Ovviamente sulla scrivania ho il Pc fisso (ho anche un pc portatile comprato per vari motivi tra i quali per il lavoro di trento e per l’università) e mi siedo su una fantastica (e costosa!!) poltrona ergonomica della Stokke che spesso mi induce più a rilassarmi che a lavorare. Ahimè… la capacità di tenere la concentrazione non è il mio punto di forza.
Il lavoro di progettazione degli interventi che faccio avviene quasi integralmente in casa e quindi alla scrivania della mansarda.
Un altro dato: vivo da sola e non ho mai sperimentato convivenze con i fidanzati.
Da questo prima descrizione penso che si intuisca che, al momento, non vivo il problema dello spazio in quanto tale. Ma penso sia stata una decisione presa quando ho deciso di acquistare, con un mutuo, la casa. Non riuscivo proprio a pensarmi in un bilocale… forse anche perché ho sempre vissuto in una casa non piccolissima. Quando ho visto la mansarda ho subito pensato che potesse essere il luogo di lavoro e di accoglienza (in realtà poi alle cene con gli amici si sta al piano inferiore); non ho pensato: “qui ci metto la camera da letto”. Era per me il luogo più bello e valeva la pena di viverlo e riempirlo di oggetti e significati per me importanti sotto certi punti di vista.
Inoltre, vivendo da sola, il problema forse è più con me stessa.. Quello che vivo è, al limite, una questione di organizzazione degli oggetti di lavoro nello spazio domestico. A volte gli spazi subiscono una vera è propria invasione! Penso che ciò sia dovuto essenzialmente al mio essere piuttosto disordinata (salvo poi riordinare ciclicamente quando il tutto raggiunge il massimo grado di entropia) ma mi chiedo se sia solo questo. Potrei dire che tutto ciò rappresenta una sorta di metafora del mio rapporto tra tempo lavoro e tempo libero/per me.
Gli oggetti (i faldoni, le cartellette, i fogli, i libri, ecc) non stanno solo sulla scrivania.. spesso arrivo a casa e li appoggio sul tavolo dell cucina e li, nei giorni in cui sono si corsa, stazionano a volte giorni. Certo quando qualcuno visita riordino e se condividessi la casa con qualcuno dovrei darmi delle regole diverse. E così pure intorno alla mia scrivania ci sono i disegni, alcune foto…insomma gli affetti. La sensazione è quello che tutto sia un po’ mischiato… Quando sono in ansia lo vivo con un po’ di fastidio ma, in genere, non ci faccio più caso. Per me è normale che sia così. Così come è normale mentre sto lavorando far partire la lavatrice o stendere o cucinare qualcosa oppure rispondere al telefono ad un’amica o fare uno spuntino. Anche qui addebito molto alla mia bassa capacità di concentrarmi (ogni scusa è buona per interrompermi) però tutto è…non so come…dire (e ci rifletto solo ora scrivendo) molto più domestico, nel senso conosciuto e caricato di calore. Insomma ci sono i pro e i contro.
Non saprei bene che dire sull'organizzazione del quotidiano. Il mio quotidiano ha tempi e ritmi molto diversi da giornata a giornata. Ci sono giorni o mezze giornate in cui sono a casa a lavorare e giorni in cui sono fuori dalla mattina presto sino a sera tardi. Ecco, forse mi manca (o forse no?) un’idea di un ritmo, di un qualcosa che si ripeta e che ritualizzi. Non riesco a pensare bene a delle costanti organizzative. Forse per me è difficile pensare che, in una settimana, sono fuori tutto il giorno senza avere almeno un pomeriggio a casa.Alla posta elettronica riesco a rispondere la sera (ma se sono a casa più volte al giorno: una mia dipendenza!) ma ci sono cose che hanno bisogno di un tempo meno frazionato e anche della casa non riesco a prendermi cura negli spazi serali (mi sento un po’ viziata)
Certo, nella mia organizzazione prevalgono sicuramente i tempo del lavoro.
In genere non uso la casa per riunione tra colleghi ecc. Di solito ci si incontra in uffici (es, Università) ma non avrei problemi a farle qui, almeno con i colleghi che sento più vicini.
Come si sarà capito ci sono molte variabili e poche costanti. Forse la costante reale è proprio data, nella variabilità grande del mio lavoro, proprio dal luogo principale in cui penso, progetto (non l’unico certo perché forse le cose migliore avvengono nell’incontro e nel dialogo con i colleghi intorno ad altri tavoli), cioè la mia casa.
Sento che una parte del rapporto si gioca nel fatto che l’ambiente privato è per me l’ambiente della cura, del back professionale, del ripensare (anche se ciò avviene molto anche eni non-luoghi del viaggiare), del riposo. Vedo l’ambiente provato come ciò che mi permette di reggere la dimensione pubblica. E’ anche il luogo in cui si abbassano le “difese”, in cui talvolta (se non al cellulare) ti prendi un appuntamento telefonico con l’amico/a collega per confrontarsi su alcune cose che magari senti di non aver gestito come desideravi… Ecco ora mi viene un pensiero ma prendilo così, ci dovrei riflettere meglio e per di più e al confine di questioni psicologiche personali che non so quanto interessino: è come se il pubblico a me rischiamasse più il maschile e l’ambiente privato il femminile. Lo so, ho scoperto l’acqua calda…. Però quando sono in aula (meno se sono a progettare con dei colleghi) so che ho un’immagine professionale, e quindi pubblica; so che ho un potere (ahimè) che devo gestire con equilibrio; so che sono giudicata per quello che dico e faccio.
Devo essere sincera: non vorrei fare un lavoro che avesse però una parte bassa di dimensione pubblica. Pe me è importante uscire e mettere “alla prova” quello che penso in casa; è essenziale incontrare le persone con i loro pensieri e le loro esperienze se non su cosa lavorerei? E poi, in quanto donna che viene da una famiglia in cui la mamma ha sempre e solo lavorato (e molto e poco riconosciuta) in casa, lavorare in una visibilità degli altri è anche un modo per affrancarsi da alcune radici.
la casa barca
Sono laureata in economia, ho un master e un dottorato. Mi occupo di ambiente, sostenibilità, qualità. Come libera professionista svolgo attività di consulenza aziendale, come ricercatrice collaboro con vari istituti di ricerca, come docente ho un corso in affidamento all'università.
Nel corso di questi anni, il lavoro si divideva in due città e quindi avevo “la casa (home)” dove tenevo tutti i miei libri ed era lo spazio che sentivo mio e poi “una stanza” in uno studio per il quale svolgevo consulenza aziendale a Varese e quindi la mia scrivania in università a Brescia, e pure una condivisione in casa (house) a Brescia. Ora da qualche mese è tutto molto più semplificato. Vivo e lavoro a Brescia.
Quindi vorrei parlare di questa ultima fase che mi rappresenta di più oggi. Direi che lavoro prevalentemente nell'istituto di ricerca dove ho una stanza con computer e telefono e connessione internet, a volte condivido la stanza con altri e spesso la stanza è usata per riunioni e incontri con gli altri ricercatori.
La mia casina di Brescia è piccola, ma l’ho cercata così. A Varese gli ambienti erano bellissimi, grandi, ma io li sentivo enormi per me, per una persona sola e per il fatto di avere l’ufficio a 5 minuti da casa avevo preferito mantenere staccato l’ambito lavorativo da quello casalingo. Quella era una casa casa, quasi uno spazio in cui mi pensavo in villeggiatura. Questa invece la chiamo la casa-barca. Tutto in poco spazio, su due piani collegati da una scala, ma su misura per me e a portata di mano.
In questi mesi di costruzione della casa ho fatto diversi esperimenti. Prima ho lavorato su un tavolo che serviva per tutte le attività. Se il lavoro era organizzato bene e stavo bene io, ero in grado di chiudere tutto, spostare carte e computer, usare il tavolo per la cena e poi riprendevo. Altrimenti, se ero stanca, lasciavo tutto in disordine, combinavo poco oppure cenavo o facevo colazione in mezzo a fogli e computer aperti. Nessuna connessione adsl perché tanto ce l’avevo in Università. Mi sono resa conto che questa soluzione non tornava. Trascorro poco tempo a casa e ho bisogno di uno spazio dedicato e soprattutto necessito di mie connessioni rispetto al mondo esterno. Molto ha influito anche l’arrivo di pagamenti dell’università che fino a Natale mi fatto rimanere in stand-by per tutti gli acquisti e gli investimenti minimi di una casa nuova. Insomma ora la soluzione è questa: al piano superiore ho tavolo, telefono e computer. Librerie intorno a me e il futon verso la finestra: qui lavoro. Al piano inferiore tavolo e cucina. Ho fatto anche una connessione wifi così mi sento connessa ovunque.
La mattina mi sveglio con il suono e il profumo della moka-programmabile-la-sera-prima che è meglio della classica sveglia: il profumo di caffè si spande per casa, come se lo avesse preparato qualcuno. Bevo una tazza allungata con acqua calda: è uno dei ricordi dell’Olanda dove ho vissuto due anni e che mi porto con me. Ci impiego un’ora per uscire. Per il lavoro del CRASL esco alle 8.30 -9.00 al massimo da casa, colazione seria al baretto sotto casa, dove leggo qualche quotidiano e scambio due parole con gli amici del bar. E’ un’entrata nella giornata che mi piace, ormai un piccolo rito. Arrivo in università in bici dopo una decina di minuti. Trascorro la giornata tra incontri, riunioni, telefonate, revisioni di testi. Poco rimane in università per elaborare qualcosa che non sia dipendente da un incontro. Quando capita, mi metto le cuffie e ascolto musica ad alto volume che mi crea un distacco rispetto a quanto avviene intorno e mi aiuta a concentrarmi. Lo faccio anche a casa, anche se lo spazio in cui vivo è silenzioso. Ecco, tanto non riesco a concentrarmi in uno spazio condiviso, con telefonate e presenze, tanto non riesco in uno spazio totalmente silenzioso e solitario.
In università ho fatto un calcolo di quanto tempo dedico alla risposta delle mail di lavoro: circa due-tre ore. Poi ci sono le telefonate: mezz’ora al massimo. Il resto sono riunioni di progettazione. Capita spesso che faccia più cose contemporaneamente. Esco alle 18, e quando le attività sono molte, arrivo fino alla chiusura, alle 19.30. E’ accaduto spesso negli ultimi mesi.
Poi vado a bere un aperitivo sotto casa con qualcuno degli amici e torno a casa o ceno con qualcuno che come è troppo stanco o ha il frigorifero vuoto. Oppure vado in palestra. Ora riprenderò anche a correre, ma al mattino prima di tutto. Questo dal lunedì al venerdì. Il venerdì, se ho lavorato bene, passo il pomeriggio a riorganizzarmi mentalmente la settimana successiva. Avverto la segretaria via email delle mie presenze e se abbiamo delle urgenze.
Mi sono resa conto che quello che mi faceva stare in università così a lungo spesso era la connessione adsl: a casa l’idea di essere isolata in modo costretto era per me una perdita di possibilità e mi faceva salire ansia e senso di colpa. Ora la connessione wifi di casa mi ha tolto questa sensazione e mi permette di dividere meglio quello che faccio in ambito lavorativo-relazionale in università, da quello che faccio a casa come mia attività privata o elaborazione che sia.
Da pochissimo tempo ho ripreso una relazione affettiva degna di questo nome. E’ stato come riprendere una progettazione di spazi e tempi all’interno di una progettazione più ampia, vitale direi. E’ tutto nuovo. Dopo qualche giorno di esperimento abbiamo deciso che insieme a casa, se dobbiamo lavorare entrambi, ci stiamo poco. Ci intralciamo, ma penso sia solo questione di abitudine a mantenere un proprio ambito personale, quasi solitario di elaborazione vivendo insieme lo stesso spazio. E’ questione di costruzione. Bè quando lui è presente, la colazione la faccio a casa e se riesco torno per pranzo. Altrimenti condivido con lui il baretto.
A casa scrivo meglio, ma anche mi disperdo in piccoli lavori di cura, di riordino, di riposo, di letture altre. In università, il mio lavoro è totalmente pubblico: organizzazione e collaborazione. Il fine? La gestione e la creazione di progetti di ricerca applicata, di risposta ai committenti. Un continuo lavoro interno ed esterno al Centro di ricerche. La mia identità passa da lì, da quell’elemento pubblico che è il lavoro in gruppo, la gestione e la creazione della coesione. Tutti elementi che si giocano e si creano con la presenza fisica e la cura diretta. L’approvvigionarmi di idee, di energia arriva un po’ dai risultati, dalle stesse relazioni umane e professionali che si instaurano con gli altri ricercatori e chi lavora in università (amministrazione, segreteria etc), ma molto da quanto io svolgo e creo nello spazio di casa. L’uno senza l’altro non funziona. Ci ho provato. Mi sento sbilanciata o verso l’esterno o verso l’interno e il rischio è che a casa vada verso l’inerzia di pensieri e di azione oppure in università verso la dispersione di idee e l’accumulo di informazioni eccessive e disparate.
Nel corso di questi anni, il lavoro si divideva in due città e quindi avevo “la casa (home)” dove tenevo tutti i miei libri ed era lo spazio che sentivo mio e poi “una stanza” in uno studio per il quale svolgevo consulenza aziendale a Varese e quindi la mia scrivania in università a Brescia, e pure una condivisione in casa (house) a Brescia. Ora da qualche mese è tutto molto più semplificato. Vivo e lavoro a Brescia.
Quindi vorrei parlare di questa ultima fase che mi rappresenta di più oggi. Direi che lavoro prevalentemente nell'istituto di ricerca dove ho una stanza con computer e telefono e connessione internet, a volte condivido la stanza con altri e spesso la stanza è usata per riunioni e incontri con gli altri ricercatori.
La mia casina di Brescia è piccola, ma l’ho cercata così. A Varese gli ambienti erano bellissimi, grandi, ma io li sentivo enormi per me, per una persona sola e per il fatto di avere l’ufficio a 5 minuti da casa avevo preferito mantenere staccato l’ambito lavorativo da quello casalingo. Quella era una casa casa, quasi uno spazio in cui mi pensavo in villeggiatura. Questa invece la chiamo la casa-barca. Tutto in poco spazio, su due piani collegati da una scala, ma su misura per me e a portata di mano.
In questi mesi di costruzione della casa ho fatto diversi esperimenti. Prima ho lavorato su un tavolo che serviva per tutte le attività. Se il lavoro era organizzato bene e stavo bene io, ero in grado di chiudere tutto, spostare carte e computer, usare il tavolo per la cena e poi riprendevo. Altrimenti, se ero stanca, lasciavo tutto in disordine, combinavo poco oppure cenavo o facevo colazione in mezzo a fogli e computer aperti. Nessuna connessione adsl perché tanto ce l’avevo in Università. Mi sono resa conto che questa soluzione non tornava. Trascorro poco tempo a casa e ho bisogno di uno spazio dedicato e soprattutto necessito di mie connessioni rispetto al mondo esterno. Molto ha influito anche l’arrivo di pagamenti dell’università che fino a Natale mi fatto rimanere in stand-by per tutti gli acquisti e gli investimenti minimi di una casa nuova. Insomma ora la soluzione è questa: al piano superiore ho tavolo, telefono e computer. Librerie intorno a me e il futon verso la finestra: qui lavoro. Al piano inferiore tavolo e cucina. Ho fatto anche una connessione wifi così mi sento connessa ovunque.
La mattina mi sveglio con il suono e il profumo della moka-programmabile-la-sera-prima che è meglio della classica sveglia: il profumo di caffè si spande per casa, come se lo avesse preparato qualcuno. Bevo una tazza allungata con acqua calda: è uno dei ricordi dell’Olanda dove ho vissuto due anni e che mi porto con me. Ci impiego un’ora per uscire. Per il lavoro del CRASL esco alle 8.30 -9.00 al massimo da casa, colazione seria al baretto sotto casa, dove leggo qualche quotidiano e scambio due parole con gli amici del bar. E’ un’entrata nella giornata che mi piace, ormai un piccolo rito. Arrivo in università in bici dopo una decina di minuti. Trascorro la giornata tra incontri, riunioni, telefonate, revisioni di testi. Poco rimane in università per elaborare qualcosa che non sia dipendente da un incontro. Quando capita, mi metto le cuffie e ascolto musica ad alto volume che mi crea un distacco rispetto a quanto avviene intorno e mi aiuta a concentrarmi. Lo faccio anche a casa, anche se lo spazio in cui vivo è silenzioso. Ecco, tanto non riesco a concentrarmi in uno spazio condiviso, con telefonate e presenze, tanto non riesco in uno spazio totalmente silenzioso e solitario.
In università ho fatto un calcolo di quanto tempo dedico alla risposta delle mail di lavoro: circa due-tre ore. Poi ci sono le telefonate: mezz’ora al massimo. Il resto sono riunioni di progettazione. Capita spesso che faccia più cose contemporaneamente. Esco alle 18, e quando le attività sono molte, arrivo fino alla chiusura, alle 19.30. E’ accaduto spesso negli ultimi mesi.
Poi vado a bere un aperitivo sotto casa con qualcuno degli amici e torno a casa o ceno con qualcuno che come è troppo stanco o ha il frigorifero vuoto. Oppure vado in palestra. Ora riprenderò anche a correre, ma al mattino prima di tutto. Questo dal lunedì al venerdì. Il venerdì, se ho lavorato bene, passo il pomeriggio a riorganizzarmi mentalmente la settimana successiva. Avverto la segretaria via email delle mie presenze e se abbiamo delle urgenze.
Mi sono resa conto che quello che mi faceva stare in università così a lungo spesso era la connessione adsl: a casa l’idea di essere isolata in modo costretto era per me una perdita di possibilità e mi faceva salire ansia e senso di colpa. Ora la connessione wifi di casa mi ha tolto questa sensazione e mi permette di dividere meglio quello che faccio in ambito lavorativo-relazionale in università, da quello che faccio a casa come mia attività privata o elaborazione che sia.
Da pochissimo tempo ho ripreso una relazione affettiva degna di questo nome. E’ stato come riprendere una progettazione di spazi e tempi all’interno di una progettazione più ampia, vitale direi. E’ tutto nuovo. Dopo qualche giorno di esperimento abbiamo deciso che insieme a casa, se dobbiamo lavorare entrambi, ci stiamo poco. Ci intralciamo, ma penso sia solo questione di abitudine a mantenere un proprio ambito personale, quasi solitario di elaborazione vivendo insieme lo stesso spazio. E’ questione di costruzione. Bè quando lui è presente, la colazione la faccio a casa e se riesco torno per pranzo. Altrimenti condivido con lui il baretto.
A casa scrivo meglio, ma anche mi disperdo in piccoli lavori di cura, di riordino, di riposo, di letture altre. In università, il mio lavoro è totalmente pubblico: organizzazione e collaborazione. Il fine? La gestione e la creazione di progetti di ricerca applicata, di risposta ai committenti. Un continuo lavoro interno ed esterno al Centro di ricerche. La mia identità passa da lì, da quell’elemento pubblico che è il lavoro in gruppo, la gestione e la creazione della coesione. Tutti elementi che si giocano e si creano con la presenza fisica e la cura diretta. L’approvvigionarmi di idee, di energia arriva un po’ dai risultati, dalle stesse relazioni umane e professionali che si instaurano con gli altri ricercatori e chi lavora in università (amministrazione, segreteria etc), ma molto da quanto io svolgo e creo nello spazio di casa. L’uno senza l’altro non funziona. Ci ho provato. Mi sento sbilanciata o verso l’esterno o verso l’interno e il rischio è che a casa vada verso l’inerzia di pensieri e di azione oppure in università verso la dispersione di idee e l’accumulo di informazioni eccessive e disparate.
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